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domenica 30 luglio 2017

"IO NON CERCO DI STUPIRE NESSUNO"- Conversazione (al telefono) con Daniele Pecci sull'Enrico V dello zio Willy


"IO NON CERCO DI STUPIRE NESSUNO".

 Conversazione (al telefono) con Daniele Pecci sull'Enrico V dello zio Willy.

Vado a vedere l’Enrico V al Globe l’altra sera. Una delle cose migliori che abbia mai visto al Globe. Anzi, ad oggi, di certo la migliore. Che Daniele Pecci fosse “uno bravo” me lo sentivo già. Quest’inverno avevo visto qualche puntata della fiction "Come fai sbagli". In una piccolissima scena, lui è in macchina ed aspetta. Una sola, minuscola inquadratura. Ricordo che ho pensato esattamente questo: “Guarda che bravo quest’attore che sa aspettare”. Nessuna battuta. Solo presenza. Conosceva esattamente l’equilibrio fra “esserci” e “non esserci”.
Durante lo spettacolo penso: chissà se posso intervistarlo per “lo zio Willy”. Tornato a casa, mando un messaggio. Risponde di sì. Allora mi devo preparare. Quel giorno esco per andare al Colosseo a fare qualche foto e dei video per il “Giulio Cesare”. Intanto rifletto: “Oddio! Cosa gli chiedo adesso?” Leggo le interviste che ha già rilasciato. Guardo su YouTube. Io sono interessato ad altro. Quindi decido che gli avrei chiesto quello che vorrei che qualcuno chiedesse a me. All’ora stabilita lo chiamo. Comincia la conversazione. Non registro la telefonata. Prendo appunti. Vorrei aver studiato stenografia.
1. Daniele, che cos’è per te William Shakespeare?
Pecci mi risponde che secondo lui è l’autore che meglio ha saputo raccontare la specificità dell’essere umano: il mistero dell’anima. Poi aggiunge due aggettivi: “oggettivo” e “specifico”. Questi due concetti ritorneranno spesso nel corso di tutta la conversazione.
2. Seconda domanda: è veramente il tuo autore preferito a teatro? Intimamente, voglio dire… (questa domanda gliela faccio perché se la chiedessero a me, direi: “No. È Cechov”).
Mi risponde che “sì, certamente…”. La sua voce non ha dubbi. Mi parla ora del periodo storico: l’epoca barocca e il teatro elisabettiano. Usa la parola “indecifrabile”: “un magia che trascende il teatro stesso. E la poesia. Come se avessero – gli elisabettiani – trovato dei numeri magici per creare un mondo parallelo; che va al di là”.
La mia mano corre rapida sul foglio di appunti e già mi fa male il polso. Ho letto nelle sue precedenti interviste che la scelta sull’Enrico V è caduta per il suo valore “didattico”. È un testo che parla di teatro; di come si fa e si deve fare il teatro. E Pecci vuole portare al pubblico questa lezione d’arte. Gli chiedo di confermare. Conferma. Allora gli chiedo…
3. Non c’è proprio nulla di personale fra te e Enrico V?
Subito mi risponde di no. Poi ci pensa; o ci ripensa. E mi parla di “forza”, di “sicurezza”, di “calma terribile” per affrontare i difficili momenti della vita. E aggiunge: “Enrico V è un super-eroe”.
A proposito di super-eroi: mi parla dell’”orribile microfono” al quale purtroppo sono costretti. Mi parla di cosa significa a teatro avere un “cuore puro” per far sognare lo spettatore “senza mediazione, al di là della nostra bravura” (vuole sottolineare – credo – il rischio di virtuosismo vuoto; ha ragione!). Si augura che a questo spettatore vergine non sfugga “l’insegnamento del Coro” dell’Enrico V. Che non si può tradire l’idea di fondo del teatro: che cos’è il teatro nel suo valore “oggettivo”. Ecco che torna tutta la profonda qualità pratica di Pecci: oggettività. Continua parlando di “chiamare il pubblico alla predisposizione verso lo spettacolo; il Coro dovrebbe ricordarci continuamente che cosa siamo chiamati a fare”. Insomma, in ogni spettacolo: far lavorare l’immaginazione. Poi aggiunge che i giovani, specificatamente con il loro “entusiasmo”, devono “godere di un’idea non sepolta”.
Enrico V “non soccombe, come capita agli eroi tragici shakespiriani” venuti dopo (Amleto, Lear, Otello, lo Scozzese…) Ha un solo momento di cedimento, di notte. “Perde le staffe”, dice Pecci. La notte arriva sempre per lo zio Willy, con tutti i suoi dubbi…
Ancora. Pecci: “Il teatro è il modo di rendere partecipe della Bellezza gli altri. C’è un’impossibilità di farlo a parole. A teatro invece le parole si devono pesare. Pesare le parole. Io voglio farle ascoltare come io vorrei ascoltarle. Senza sovrastrutture artistiche. Col cuore puro. Qualcosa che assomigli agli esseri umani”.

FINE PRIMA PARTE
(prosegue post successivo)
E. Petronio 

https://www.facebook.com/loziowilly/posts/451734965212825:0


SECONDA PARTE: conversazione con Daniele Pecci.

Gli chiedo di raccontarmi il suo primo ricordo shakespiriano.
4. Primo ricordo:
Nomina la lettura di “Amleto”. Dice di aver “scoperto allora un gioiello”. Poi vi si è avvicinato nel tempo, con “scarsissimi mezzi a disposizione”, gradualmente. Poi ripete: “una gemma”.
5. Pecci ha tradotto lui sia il precedente “Amleto” che “Enrico V” oggi. È laureato in Storia del teatro inglese. La questione della traduzione per me è affascinante e importantissima. Allora gli domando a cosa rinuncia quando traduce, e a cosa mira.
“In realtà ho capito che non bisogna mai dimenticare che il testo è un copione e per forza di cose è già un adattamento. Questo me lo ha insegnato il cinema. Dal cinema ho capito che l’adattamento è fondamentale. È impossibile pensare di tradurre un testo se non per uno specifico spettacolo. Il traduttore si chiede: che cosa intende fare il regista? Ogni rinuncia va tutta a vantaggio della tua messa in scena”. Nel caso suo, regista e traduttore coincidono, quindi il dialogo è diretto. “Il riscontro più grande”, continua, “che ho dal pubblico e in primo luogo da me stesso, è una grande chiarezza. Ogni singola battuta. Ogni singola intenzione”. Nel caso di “Amleto” ad esempio si trattava di “grandissima prosa”; nel caso dell’Enrico V la questione è “epica”; Pecci dice:”mastodontica”. Insomma, “io preparo un copione”.
Pecci ora mi parla di “allestimenti sopraffini, raffinati; ma innaturali” dove gli attori quasi non arrivano al secondo atto per lo sforzo “innaturale” richiesto loro vocalmente, ad esempio. Se ho capito bene, l’ingenuità di cui viene a volte tacciato è per lui “una vittoria senza precedenti”. Lui cerca di offrire “la cosa primaria: la comprensione del testo”. Vi assicuro che di ‘sti tempi non è poco.
Allora mi ricordo di quello che io ho pensato mentre guardavo lo spettacolo l’altra sera. È proprio vero: se vuoi fare l’originale, allora devi essere veramente originale; sennò so’ guai! E attenzione! Uno spettacolo cosiddetto “semplice” ed “ingenuo” non significa affatto che non sia originale. Originale è il cuore. E ciascuno è costretto ad essere solo sé stesso. La buona vecchia regola: se cerchi di essere ciò che non sei, allora... Non ho trovato lo spettacolo di Pecci affatto semplice ed ingenuo. Tutt’altro. Ho visto una regia. Ho visto dinamiche precise e di sicuro pensate. Non ho visto trucchi. Ho visto cultura, gusto, ritmo nei movimenti. Ho sentito silenzi che parlavano davvero, non che fingevano di parlare. Ho visto uno che si è messo in gioco lui, senza tentare – consciamente o inconsciamente – di ricalcare tracce passate di antichi maestri che non ci sono più. In coda al bar, un ragazzo – palesemente non-educato teatralmente – sorrideva di gusto e diceva alla fidanzata: “ci credono veramente! Hai visto i soldati? Sono tutti impettiti! Figo!” Ho pensato: Pecci, hai vinto!
Pecci va avanti: “è dilagante nel nostro teatro nazionale, che si crede alto, il perdersi fra due camere e cucina; un teatro solo per gli addetti ai lavori”. I teatranti “che cercano un motivo per stupirsi e per stupire”. Per lui invece bisogna “scendere di qualche gradino, per andare incontro al pubblico”. L’aggettivo a cui aspira è: “onesto”. Bisogna farsi capire.
Let’s go light!
6. Quale Shakespeare vorresti fare in futuro? Quale non vorresti fare mai?
Ride. Non farebbe mai un pezzo che non si sente in grado di “fare”. Pecci usa spesso il verbo “fare”: perché – credo – è un uomo molto pratico. Nel senso che dialoga molto praticamente con la sua sensibilità. Il “Tito Andronico”, la tragedie romane, “Giulio Cesare”, “Coriolano”… e poi “La commedia degli errori” … “non mi saprei muovere bene”… Invece lui è vicino a “Misura per misura”, “La dodicesima notte”… “cose che spronano la mia fantasia”… “Otello”, “lo Scozzese”, “Riccardo II”, forse il “Riccardo III”, “Il racconto d’inverno”, “Lear” (da vecchio), “Enrico IV”, “Enrico VI” …
7. Uno spettacolo che ti è piaciuto?
Un “Amleto” all’Argentina; una compagnia inglese diretta da un regista russo: Lyubimov . Di nuovo torna a parlarmi della cosa che – ho capito – è per lui la più importante: “cosa siamo chiamati a fare”. Poi dice una cosa interessante: “a teatro non piangi perché uno muore; piangi perché un poveraccio si è fatto in quattro”. Parla di “terribile e patetico sforzo”. Il pathos. Nell’Enrico V si parla di “poveri disperati”, di commoventi “poveri zero”.
Alla fine gli chiedo se vuole aggiungere qualcosa.
“Invito lo spettatore che non è mai andato. Sono sempre molto interessato a chi mi dice che è la prima volta che viene a teatro. Questo mi fa sentire un grande senso di responsabilità; e curiosità enorme. Lo spettatore che viene per la prima volta è puro, sincero; vede tutto quello che c’è, veramente; senza mediazioni artistiche. Trovo molto noioso e sterile chi mi dice che non gli sono piaciute le luci a led. Questo mi annoia. Non sa che sono le sole che abbiamo. O se mi accusano, nei monologhi importanti, di stare in centro (alla scena). Mi annoia. Io non cerco di stupire nessuno”.
Insomma, bisogna andare all’essenza. E poi, si possono creare i particolari. Ma se non cogli l’essenza, dei trucchi non te ne fai proprio nulla.
Andate a vedere Pecci.

Enrico Petronio

https://www.facebook.com/loziowilly/posts/451734085212913

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