Medea d
i Euripide
19 e 20 giugno – ore 21.15 – Fiesole, Teatro Romano (Fondazione Teatro della Toscana e Teatro Stabile Napoli)
Biglietti:
Posto unico. Intero Euro 24,00 / Ridotto Euro 20,00 (under 26, over 60, abbonati Teatro della Pergola) e 16€ (soci Unicoop Firenze valido solo per la data del 20 giugno) |
acquista prevendita
traduzione Maria Grazia Ciani;
adattamento Gabriele Lavia
personaggi, interpreti
Medea, Federica Di Martino;
Giasone, Daniele Pecci ;
Creonte, Umberto Ceriani ;
Nutrice, Angiola Baggi;
Pedagogo, Pietro Biondi;
Messaggero, Gabriele Anagni;
Figli di Medea, Sofia De Angelis, Camilla Giardini;
Coro, Silvia Biancalana, Maria Laura Caselli, Claudia Crisafio, Flaminia Cuzzoli, Giulia Gallone, Silvia Maino, Diletta Masetti, Katia Mirabella, Sara Missaglia, Francesca Muoio, Marta Pizzigallo, Malvina Ruggiano, Anna Scola, Lorenza Sorino.
regia Gabriele Lavia
scenografia Alessandro Camera;
costumi Emanuele Zero;
musiche Giordano Corapi;
luci Michelangelo Vitullo
Durata: 1h e 20’ circa, atto unico
Prima nazionale
Venerdì 19 e sabato 20 giugno una grande prima nazionale al Teatro Romano di Fiesole: Medea con la regia di Gabriele Lavia. Lo sforzo congiunto della Fondazione Teatro della Toscana e del Teatro Stabile Napoli illumina l’estate teatrale con un lavoro che scava nell’animo umano e nei grandi interrogativi della vita. Federica Di Martino è Medea, Daniele Pecci è Giasone. Lo spettacolo della diversità e dell’istinto attraversato da visioni tragiche e folgoranti.
Medea è uno dei personaggi più celebri del mondo classico, per forza drammatica, complessità ed espressività. Euripide la mette in scena nel 431 a.C. e per la prima volta nel teatro greco (almeno quello che è arrivato sino a noi) protagonista di una tragedia è la passione, violenta e feroce, di una donna. Forte, perché padrona della sua vita, tanto da distruggere tutto quello che la lega al suo passato. Una donna diversa, una barbara in una città che la respinge. Gabriele Lavia legge oggi nel capolavoro euripideo il viaggio verso un personaggio sradicato in un paese straniero. “Medea è una donna tradita”, spiega il regista, “è una donna che viene da lontano. È ‘figlia del Sole’, non perché partorita dal dio Sole, ma perché viene dal mondo in cui il Sole sorge. Viene dal Caucaso, dall’Oriente, è un’altra cultura. È quel mondo che parla il ‘barbar’, cioè balbetta la lingua greca, da cui ‘barbaroi’, ‘barbari’. Giasone sposa Medea: è come se un signore di Stoccolma sposasse la figlia del re di una tribù dell’Amazzonia, che però ha delle conoscenze che a noi sfuggono.”
La scena si svolge a Corinto, dove Medea vive con Giasone e i loro due figli. La donna ha aiutato il marito nell’impresa del Vello d’oro e abbandonato il padre Eeta, re della Colchide e fratello di Circe. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole offrire sua figlia Glauce in sposa a Giasone, dandogli così la possibilità di successione al trono. Giasone accetta e abbandona Medea. Federica Di Martino, reduce dal successo al Piccolo Teatro di Milano di
Divine parole, regia di Damiano Michieletto, interpreta Medea, mentre Daniele Pecci, attore di cinema e televisione, apprezzato Edipo nel 2013 al Teatro greco di Siracusa, è Giasone. Umberto Ceriani è Creonte, Angiola Baggi la Nutrice, Pietro Biondi il Pedagogo, Gabriele Anagni il Messaggero. Il coro è formato da quattordici giovani attrici. Figure di importanza fondamentale per la trama, quali i figli della coppia, interpretati da Sofia De Angelis e Camilla Giardini, sono continuamente presenti (tanto nei discorsi dei personaggi quanto sulla scena), senza però mai esprimersi direttamente. Euripide intende avvolgerli in un’atmosfera drammatica, come per mostrare al pubblico il terribile destino cui vanno incontro.
“
Medea è un testo, come si dice, antico”, prosegue Lavia, “antico non vuole dire morto, passato. Al contrario, più è antico e più è vicino a una origine. L’origine di qualcosa è la sua essenza.
Medea, dunque, è più vicina all’essenza del teatro di qualunque testo più recente o, addirittura, attuale.” Malgrado la disperazione, vista l’indifferenza di Giasone, la donna medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che in realtà è pieno di veleno, lo indossa per poi morirne fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch’egli il mantello, e muore. Ma la vendetta di Medea non finisce qui: per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli avuti con lui condannandolo all’infelicità perpetua. La tragedia ha una spiccata presenza umana, lasciando da parte gli dèi, i quali sembrano assistere muti a queste tragiche vicende. Giasone, infatti, li accusa di non aver impedito la triste sorte dei suoi figli, ma non riceve alcuna risposta, mentre Medea riuscirà a sposare Egeo e a tornare, da regina, nella sua Colchide. “Medea, che si ripete sempre la ‘stessa’ e mai uguale (poiché cambiano le attrici)”, precisa Lavia, “è ‘contemporanea’ e mette in crisi o denuncia una certa attualità di oggi, svelandone l’inconsistenza o, talora, la falsità. Che cosa è contemporaneo nell’antichissimo? Proprio il fatto che qualcuno lo ‘ripeta’. E per ripetere bisogna apprendere”. Medea contiene, dentro di sé, quasi due figure contrastanti: una vorrebbe uccidere i figli, l’altra li vorrebbe risparmiare. La sua è una mente scissa, conflittuale, quasi che Euripide conoscesse la moderna psicologia. Giasone, al contrario, è quasi sminuito, tanto da ottenere la fama di seduttore che spingerà Dante a collocarlo nell’
Inferno. Sembra che per lui l’amore rappresenti soltanto un mezzo per la conquista di qualcosa, da eroe scade al rango di uomo egoista e meschino, che crede di riuscire a giustificare il proprio operato solo per mezzo della sua capacità oratoria.
L’opera ha quindi molte sfaccettature e svariate interpretazioni: per Gabriele Lavia rappresenta l’affermazione della dignità della donna, concetto che stava prendendo forma nell’Atene dell’epoca. Medea è vittima della ‘paura dell’estraneo’, straniera in terra straniera viene vista come un pericolo e, per vendetta, alla fine lo diventa.
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